La storia del Sistema Solare è ancora tutta da raccontare.

M. Fulchignoni, 1976

L'Origine del Sistema Solare


 

Una visione d'insieme

Scorrendo le tappe fondamentali della Storia dell'Astronomia, appare evidente come il quadro complessivo del Sistema Solare si sia gradualmente modificato e ampliato man mano che la ricerca e la tecnologia mettevano a disposizione strumenti di indagine più adeguati.
Alla fine del XVII secolo tale quadro era già sufficientemente complesso, tanto che si riconosceva, oltre alla evidente presenza del Sole e della Terra con la Luna, anche quella di Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno; erano inoltre noti 4 satelliti di Giove (i cosiddetti Galileiani) e 5 di Saturno, e cominciava a prender corpo l'idea che le comete fossero a pieno titolo corpi appartenenti al Sistema Solare (Halley - 1687).
Nel XVIII secolo si aggiunge al gruppo Urano con 2 suoi satelliti, mentre salgono a 7 quelli di Saturno.
Un ulteriore passo in avanti viene compiuto nel secolo scorso: Nettuno, i due satelliti di Marte, 2 ulteriori satelliti di Saturno, altri 2 di Urano ed uno di Giove.   E' inevitabile, parlando di Nettuno, sottolineare come la scoperta di questo pianeta rappresenti uno dei momenti storici della Meccanica Celeste; grazie agli studi accurati delle perturbazioni dell'orbita di Urano compiuti, indipendentemente, da Adams e Le Verrier, J.G. Galle di Berlino il 23 settembre 1846 (tre mesi dopo la pubblicazione dei calcoli di Le Verrier) identificò in cielo il nuovo pianeta: carta e penna avevano preceduto il telescopio e gli avevano indicato la strada.
E' del 1801 la scoperta di Cerere, il primo degli asteroidi e su di essa approfondiremo il discorso in seguito.
Per completare il quadro dei pianeti bisognerà attendere il 18 febbraio 1930 con la scoperta di Plutone, avvenuta in modo apparentemente simile a quella di Nettuno: i calcoli erano stati fatti da Lowell e la scoperta fu opera di Tombaugh.   In quella circostanza, però, la fortuna diede proprio un aiuto decisivo: gli elementi orbitali calcolati teoricamente, infatti, erano abbastanza diversi da quelli reali determinati in seguito, e Plutone si trovava in quella posizione quasi per caso...
E’ opportuno, sempre parlando di Plutone, segnalare fin d’ora che, oggi, non è più così unanimemente condivisa la sua classificazione come pianeta, ed a tal proposito occorre aprire una piccola parentesi. 

E’ vero che la necessità di definire un corpo quale "pianeta" è puramente speculativa e deriva più dal nostro bisogno di classificare i corpi celesti che non da effettive e nette distinzioni presenti in natura, ma è altrettanto vero che il codificare alcuni criteri identificativi potrebbe talvolta aiutare la nostra comprensione.
Un dato innegabile è che non esiste alcuna definizione ufficiale di cosa possa essere considerato un pianeta, ma è comunque possibile tentare di costruire una accettabile definizione di lavoro, e lo facciamo seguendo i suggerimenti di A. Stern (1992).
E’ ragionevole supporre che un corpo celeste per essere considerato un pianeta debba soddisfare questi tre criteri:
1. Non deve essere di massa talmente elevata da riuscire ad innescare reazioni nucleari al suo interno, trasformandosi in tal modo in una stella.
2. Deve possedere una massa sufficientemente elevata da fargli assumere una forma sferica grazie all’azione della sua stessa gravità; la transizione tra una forma irregolare ed una forma sferica assicurata dalla gravità si verifica per oggetti di 200-400 km di diametro.
3. Deve percorrere un’orbita che si snoda direttamente intorno al Sole e non attorno ad un altro corpo celeste.
Questi criteri sono sufficientemente chiari, facilmente comprensibili e, penso, condivisibili da tutti.
La loro applicazione, però, mostra evidenti segni di problematicità; non si capisce, infatti, perchè venga classificato come pianeta Plutone e non lo siano i maggiori asteroidi (Cerere, Pallade, Vesta...).   Certamente hanno giocato in questa direzione le contingenze storiche, riconducibili, in modo molto sintetico, alla scoperta a cascata degli asteroidi ed alla quasi immediata elaborazione della teoria del "pianeta distrutto", con il conseguente declassamento di questi corpi celesti al ruolo secondario di frammenti.   Per Plutone, invece, le circostanze hanno operato in senso contrario, favorendo la maggiore considerazione di cui gode: non solo si trattava di un nuovo e concreto risultato di quel lavoro di analisi delle perturbazioni del moto che, ottanta anni prima, aveva egregiamente portato alla scoperta del pianeta Nettuno, ma, soprattutto, questo nuovo oggetto, posto agli estremi confini della zona planetaria del Sistema Solare, non condivideva la sua orbita con altri corpi celesti, dunque il classificarlo come pianeta era la scelta più logica...
Ragionando con il senno di poi, emerge, evidente, il diverso metro usato nel caso di Cerere e Plutone; se, poi, si tiene conto delle recenti scoperte nella zona trans-nettuniana non si può non riflettere sul carattere talvolta ambiguo e fuorviante che possono assumere le nostre classificazioni se si considerano come parametri assoluti ed indiscutibili.   Non intendo, comunque, nè indire crociate per l’inclusione di Cerere nel novero dei pianeti nè battermi perchè si giunga all’ostracismo nei confronti di Plutone: non siamo certamente di fronte, come talvolta capita di leggere, alla necessità di "rimediare a delle ingiustizie"...
E poi, anche se questa argomentazione può sembrare banale, forse che la diversa etichetta che potremmo mettere su questi corpi celesti potrebbe fornirci nuove verità circa la loro natura?
Ritengo, in ogni caso, che il terzo criterio necessiti di una appendice.
Questa potrebbere essere la valutazione della forma dell’orbita e della sua stabilità nel tempo: lo studio del valore dell’eccentricità e dell’inclinazione dell’orbita di un corpo potrebbero rivelare orbite caratterizzate nel passato da forti perturbazioni gravitazionali o da impatti e tale esperienza potrebbe ancora influenzare l’evoluzione dinamica di quel corpo.    Il punto cui voglio arrivare è introdurre il criterio della stabilità orbitale su tempi comparabili all’età del Sistema Solare: questo criterio comporta che un pianeta sia destinato a mantenere la sua collocazione orbitale e non venga disturbato in modo catastrofico dagli altri pianeti.   La verifica operativa di questo fatto non è comunque semplice ed è possibile solamente ricorrendo all’integrazione delle orbite su lunghi periodi per mezzo di programmi di calcolo e simulazioni computerizzate.
Chiudiamo bruscamente questa parentesi e torniamo al quadro generale del Sistema Solare.

La situazione dei componenti la famiglia del Sole ottenuta grazie alle osservazioni effettuate con i mezzi attuali, soprattutto grazie al contributo delle sonde spaziali, può essere riassunta in questa tabella:

Pianeta

Numero
satelliti
Dist. media dal
Sole (U.A.)
Periodo
(anni)
Massa
(MT) (*)
Raggio
(RT) (*)
MERCURIO 0 0.387 0.240842 0.0559 0.382
VENERE 0 0.723 0.615187 0.8150 0.949
TERRA 1 1.000 1.00000 1.00 1.00
MARTE 2 1.524 1.880816 0.1074 0.532
GIOVE 16 5.203 11.86178 317.9 11.226
SATURNO 18 (**) 9.523 29.45657 95.2 9.407
URANO 17 19.164 84.01880 14.5 4.007
NETTUNO 8 29.987 164.788 17.2 3.882
PLUTONE (***) 1 39.440 247.688 0.0022 0.180

(*) MT = 5.97 x 1024 kg RT = 6378 km
(**) Si hanno concrete indicazioni (IAUC 6515) che attorno a Saturno vi siano molti altri satelliti di piccole dimensioni; la parola definitiva spetterà, forse, alla missione spaziale Cassini, che ha iniziato il suo viaggio verso il pianeta degli anelli il 15 ottobre 1997.
(***) Plutone è mantenuto nell'elenco per le ragioni storiche sopra citate.

Ma, come si è già avuto modo di notare, non vi sono solamente pianeti (con i rispettivi satelliti) a danzare intorno al Sole.    Tra Marte e Giove, in una regione di spazio compresa tra circa 1.8 e 3.5 U.A., si colloca la FasciaPrincipale degli Asteroidi, formata da circa il 97% degli oltre 40.000 (finora scoperti) corpi celesti così chiamati per il loro aspetto "quasi stellare", 7000 dei quali ha orbite determinate in modo accurato.
Il quadro è ulteriormente arricchito dalla presenza delle Comete (corpi celesti per i quali non è possibile trovare una "collocazione spaziale" ben definita in quanto caratterizzati da un'ampia gamma di parametri orbitali) e dalla recente introduzione di una nuova classe di oggetti celesti, indicati genericamente con il termine di Kuiper-Belt Objects (ma ai quali talvolta ci si riferisce con il termine di Oggetti Trans-Nettuniani) la cui scoperta ha reso non più solamente ipotetica l'esistenza della Fascia di Kuiper.
Anche agli occhi dei non addetti ai lavori appare sempre più evidente il cambiamento radicale cui si sta avviando la nostra visione del Sistema Solare, e non solo grazie alla scoperta dell’esistenza di numerosi corpi celesti all’estrema periferia della zona planetaria, ma anche grazie alla crescente presa di coscienza che lo stesso spazio interplanetario è tutt’altro che vuoto.   Una popolazione in continuo aumento, dunque, quella che compone il Sistema Solare, e questo può forse giustificare il crescente bisogno di rivedere classificazioni che, fino a ieri, avevano egregiamente svolto il loro compito.
La stessa definizione di Corpi Minori presenta alcuni aspetti problematici: solitamente con questo termine si è sempre inteso comprendere i corpi del Sistema Solare con l’esclusione dei pianeti e del Sole, intendendo distinguere tra tutti i corpi (ed il termine "minori" è in tal senso molto eloquente) gli oggetti più grandi da quelli di dimensioni inferiori; ma come non puntualizzare che vi sono almeno due satelliti (Ganimede e Titano) più grandi di Mercurio e ben 7 con diametro equatoriale maggiore di quello di Plutone?
Si veda, a tale proposito, la tabella seguente:

Oggetto Satellite di Diametro
GANIMEDE GIOVE 5262 km
TITANO SATURNO 5150 km
MERCURIO = 4878 km
CALLISTO GIOVE 4800 km
IO GIOVE 3630 km
LUNA TERRA 3476 km
EUROPA GIOVE 3138 km
TRITONE NETTUNO 2700 km
PLUTONE = 2300 km

In questo libro, comunque, utilizzerò il termine Corpi Minori del Sistema Solare in una accezione ancora più ristretta, vale a dire escludendo tutti i satelliti: verranno perciò analizzati gli ASTEROIDI, le COMETE ed i KUIPER-BELT OBJECTS, cercando anche di verificare, dove possibile, come le conoscenze che possediamo in merito a questi corpi si adattano a quanto conosciamo della formazione dell’intero Sistema Solare.   Forse la scelta può apparire drastica, ma la stupefacente varietà di caratteristiche rilevabili nei satelliti porterebbe l’analisi troppo lontano; se è vero, infatti, che il meccanismo della genesi satellitare è strettamente collegato al processo di accumulazione planetaria, è altrettanto vero che i risultati cui giunge sono tutt’altro che uniformi, anche nel caso di due pianeti sufficientemente simili tra loro quali sono Giove e Saturno.
Ogni satellite è veramente un "mondo a sè" e sarebbe veramente arduo riuscire a dare di questi corpi una visione di sintesi.
La stessa distinzione in Asteroidi, Comete e KBO (Kuiper-Belt Objects) è mantenuta unicamente con una finalità "didattica" in quanto offre elementi significativi per inquadrare i corpi descritti; il rovescio della medaglia è che, in realtà, non tiene conto del fatto che è veramente impossibile tracciare un confine netto tra le varie classi.
E non si tratta solamente di gestire le varie eccezioni che confermano la regola!
Le comete e gli asteroidi, nelle loro accezioni più comuni, possiamo pensarli come i rappresentanti estremi di un insieme molto variegato di oggetti celesti, nel quale trovano evidentemente posto anche molteplici corpi che presentano caratteristiche intermedie.
Basti pensare, infatti, ai numerosi nuclei di comete ormai "spenti", praticamente indistinguibili da un asteroide; o all’oggetto 1996 PW (scoperto il 9 agosto 1996), caratterizzato da un’orbita fortemente eccentrica, dunque di tipo cometario, ma che non mostra alcun segno di attività cometaria; oppure alla cometa P/1996 N2 (scoperta annunciata il 7 agosto 1996) che associa un’orbita tipicamente asteroidale alla presenza di una bella coda.
E come non sospettare che in questo insieme così multiforme possano trovare stabile collocazione anche gli oggetti trans-nettuniani e gli enigmatici Centauri?
Dopo queste precisazioni e prima di iniziare una analisi dettagliata, ritengo sia necessario presentare un breve quadro descrittivo della nascita e dell'evoluzione del Sistema Solare: sarà questo il quadro di riferimento nel quale collocare i vari corpi sopra menzionati.

 


 

L'origine e l'evoluzione del Sistema Solare

La teoria ormai accettata circa l'origine e l'evoluzione del Sistema Solare è sostanzialmente (come idea di partenza) quella di Kant (1755) e Laplace (1796): una nube di gas e polveri che, sotto l'azione della gravità, tende a condensarsi.   E’ importante sottolineare (Coradini et al.,1980) il duplice aspetto della teoria che deve spiegare la nascita del Sistema Solare: da una parte vi è un problema astrofisico (correlato alla formazione della stella Sole, da risolvere alla luce delle teorie e dei modelli stellari) e dall'altra parte un problema planetologico (da risolvere alla luce dello studio dei meteoriti, delle superfici e degli interni dei pianeti).
E’ significativo anche porre in evidenza due difficoltà di fondo, vale a dire il fatto di avere a disposizione solamente il nostro Sistema Solare quale fonte di informazioni ed il fatto che ci è quasi del tutto sconosciuto il suo stato iniziale.    Queste due difficoltà ci pongono in una situazione profondamente diversa e più complicata di quella che si incontra nell’analisi dell'evoluzione stellare.    Lo studio dell'evoluzione stellare ha la possibilità di guardare sia nel passato sia nel futuro: si possono, cioè, osservare stelle in diverse fasi della loro evoluzione ed in tal modo verificare le ipotesi formulate.   Nel caso dell’analisi dell'evoluzione planetaria, invece, si ha a disposizione soltanto il nostro sistema planetario, ed in esso, inoltre, è possibile individuare pochi relitti delle epoche passate.
Ma vi sono anche due importanti evidenze relative all’origine comune del Sole e dei pianeti:
1. il Sistema Solare è sostanzialmente isolato, dato che la distanza della stella più vicina è maggiore di un fattore 5x104 rispetto alle dimensioni della zona planetaria.
2. la maggioranza dei corpi maggiori che compongono il Sistema Solare ha orbite che giacciono su un piano comune e le percorre nello stesso senso.
Nella tabella che segue sono riportati i valori dell’inclinazione delle orbite planetarie rispetto al piano dell’eclittica, che, per definizione, è il piano su cui giace l’orbita della Terra:

Pianeta

Inclinazione Pianeta Inclinazione
MERCURIO 7º 00’ SATURNO 2º 29’
VENERE 3º 24’ URANO 0º 46’
MARTE 1º 51’ NETTUNO 1º 47’
GIOVE 1º 18’ PLUTONE (*) 17º 08’

(*) Per la classificazione di Plutone vale quanto già detto.

Dalle considerazioni fatte, appare evidente il fatto che la genesi di un sistema planetario e la sua evoluzione dipendano in modo sostanziale dalle fasi evolutive della stella ad esso associato.
Un dato ormai condiviso da tutti è che il processo di formazione stellare avvenga all'interno delle nubi molecolari giganti (prevalentemente composte da H2 per decine di migliaia o anche milioni di masse solari a temperature di pochi gradi Kelvin): le parti più dense di queste strutture si suddividono in nubi più ridotte, di massa compresa tra 0.01 e 100 masse solari, che cominciano a contrarsi per autogravitazione (Lamzin, 1995).   Non è ancora stato identificato con certezza, a questo proposito, il meccanismo che rompe il sostanziale equilibrio della nube e innesca il processo di collasso, anche se è ormai unanimemente accettata l'ipotesi di Lin delle "onde di densità" associate alla struttura a spirale della Galassia (Gratton, 1978) ed è riconosciuto il ruolo determinante delle esplosioni di supernova (Coradini et al., 1980 - Schramm e Clayton, 1982).
In ogni caso, con il sopravvento della gravità (fisicamente garantito solo se la massa coinvolta supera il valore critico dato dalla massa di Jeans), la materia "cade" verso il centro della nube in un tempo dell'ordine di 105 anni.
Si origina così una protostella: un corpo dotato di luminosità decine di volte superiore a quella solare, la cui presenza può, però, essere rilevata solamente da osservazioni IR.   La radiazione emessa, infatti, viene rapidamente assorbita dall'involucro di polveri che ancora circonda la protostella e riemessa nella zona IR dello spettro.    Stando ad un recente lavoro di Mannings ed Emerson (1994), le osservazioni nel dominio millimetrico, oltre che rivelarci stelle nelle fasi iniziali, potrebbero anche darci la prova dell’esistenza di strutture a disco attorno a queste protostelle, possibili sedi del meccanismo di formazione di un sistema planetario.    Associata alla fase di protostella, infatti, se la materia in caduta è dotata di un moto di rotazione vi è la formazione di un disco nel quale gli attriti facilitano lo smaltimento del momento angolare in eccesso e si attiva un processo di aggregazione tra le polveri.
Alcuni attribuiscono proprio all'interazione tra un disco di accrescimento ed il campo magnetico di una protostella tutti i fenomeni tipicamente collegati alle T-Tauri, fenomeni che precedenti teorie non erano riusciti a spiegare in modo completo (Lamzin, 1995).
Il primo riscontro osservativo della teoria del disco di polvere attorno ad una stella quale primo passo di una possibile formazione planetaria è la scoperta (nel 1984) del disco di polvere attorno a b -Pictoris, stella di sequenza principale distante da noi circa 50 anni luce.   Il disco si estende per oltre 200 U.A. dalla stella centrale e le sue parti più interne contengono poca polvere, che, probabilmente, si è già aggregata sotto forma di pianeti.
La più recente evidenza osservativa della presenza di un disco di polvere attorno ad una stella si è avuta per HL Tauri (Close et al., 1997) ed il diametro della struttura è stato stimato in circa 150 U.A.   La stella centrale dovrebbe avere un’età di circa 300 mila anni ed una massa di 0,7 MSOL: i ricercatori responsabili della scoperta suggeriscono che il disco di HL Tauri sia un ottimo esempio di ciò che fu il nostro Sistema Solare in formazione.
Attualmente, comunque, la presenza di dischi protoplanetari attorno a giovani stelle è ormai un dato di fatto, confermato da diverse osservazioni tra cui, ad esempio, quattro giovani stelle della Nebulosa di Orione.

Il processo di formazione di un disco sfocerebbe gradualmente nella formazione di varie masse sferiche (planetesimali): si ipotizza che per giungere a formare oggetti con dimensioni dell'ordine di 1 km sia necessario un tempo di circa 104 anni (Taylor, 1992).   Il gradiente termico giocherebbe in questa fase un ruolo importantissimo concentrando nei corpi più prossimi alla stella i materiali con densità più elevata e relegando in quelli più lontani i materiali volatili.
Il passo successivo può essere identificato con alcuni dei fenomeni osservati nelle stelle di tipo T-Tauri: per cause ancora ignote si arresta l'accrescimento di materia sulla protostella e si sviluppa un potente "vento stellare" (con velocità dell'ordine di alcune centinaia di km/sec e portata di miliardi di tonnellate/sec) in grado di spazzare le polveri residue della nebulosa iniziale.    L'origine di questo vento stellare è probabilmente da ricercarsi nella accensione del deuterio: si attivano, cioè, le reazioni nucleari tipiche delle stelle.
Si devono associare a questa fase dell’evoluzione stellare anche gli oggetti di Herbig-Haro, caratterizzati dall’emissione di intensi getti di gas dalle regioni polari, e le stelle di tipo FU-Orionis, che presentano in modo molto più accentuato i violenti fenomeni eruttivi tipici delle stelle T-Tauri.
Lo scenario finale, dunque, è quello di una stella all'inizio della sua evoluzione (fase zero del diagramma H-R o, se si preferisce, stadio finale dell'evoluzione di pre-sequenza principale) attorno alla quale gravitano dei corpi celesti di dimensioni diverse: tra questi planetesimali inizia un complesso processo di accrezione e collisione nel quale giocano un ruolo fondamentale le perturbazioni gravitazionali generate dai corpi con massa maggiore.
Sempre tenendo ben presenti le precauzioni già evidenziate allorchè si operino delle schematizzazioni, il processo di formazione del Sistema Solare può essere riassunto nelle seguenti fasi:

FASE "ZERO"
Inizio dell’addensamento gravitazionale: si parte da una nube interstellare (composta per il 70% di H, il 27% di He e per il restante 3% di elementi più pesanti) la cui situazione di equilibrio viene perturbata da un fattore esterno.   Non è certamente azzardato Taylor (1992) quando afferma che la nebulosa primordiale non doveva essere di grande massa e neppure dotata di moto rotazionale elevato; queste due caratteristiche, infatti, resero possibile il fenomeno di addensamento centrale, impedendo, cioè, quel frazionamento della nebulosa che sarebbe sfociato nella nascita di un sistema stellare binario.
A proposito della causa perturbatrice responsabile dell’innesco del meccanismo di autogravitazione, già si è avuto modo di dire che, oltre l'onda di densità di Lin, si può ragionevolmente ipotizzare una vicina esplosione di supernova: con tale ipotesi si potrebbe giustificare la presenza di alcuni isotopi la cui sintesi difficilmente si potrebbe spiegare in altro modo.
Ad ogni buon conto ha inizio il collasso gravitazionale, assicurato dalla presenza di materia in quantità sufficiente a garantire la massa di Jeans.

FASE 1
Collasso della materia della primordiale nebulosa solare (gas e polvere) in un disco rotante (dissipazione di momento angolare) e conseguente condensazione di piccole particelle (formazione dei granuli).   Ripetuti episodi di condensazione ed evaporazione possono spiegare le inclusioni refrattarie di CAI (calcio-alluminio intrusion) rilevate in alcune meteoriti.   Sono queste inclusioni gli oggetti più antichi dei quali è stato possibile stabilire una datazione (meteorite Allende), stimata in circa 4560 milioni di anni; ed è a tale epoca cui, solitamente, ci si riferisce quale istante To per il Sistema Solare.
Considerando la composizione attuale del Sistema Solare interno, sembra che gli elementi condensatisi per primi siano Ferro, Nickel e silicati di Ferro e Magnesio; nelle regioni più esterne della nebulosa, a temperature inferiori, il nocciolo della condensazione era costituito da ghiaccio d’acqua e ghiacci di acqua/ammoniaca.
Il ritmo di crescita è quantificato (Goldreich e Ward, 1973) nell’ordine di centimetri per anno per i minerali più abbondanti; considerando la condensazione del Ferro nella regione terrestre viene suggerita la condensazione di granuli con raggio di alcuni centimetri in tempi di una decina d’anni.

FASE 2
Contemporaneamente alla fase di condensazione in granuli inizia la caduta delle particelle verso il piano mediano della nebulosa con la conseguente formazione di un sottile e denso disco di polveri.   E’ in questo disco di materia formatosi nel piano centrale durante la fase di condensazione che si sviluppano le instabilità gravitazionali responsabili dei fenomeni successivi; i valori dei parametri fisici caratteristici sono, indicativamente, di 700 °K per la temperatura e 7.5x10-10 g/cm3 per la densità del gas (Goldreich e Ward, 1973).
Si verificano episodi di fusioni che coinvolgono metalli e silicati e che possono spiegare la formazione di condruli; con questo termine si indicano le inclusioni sferoidali, tipicamente di circa 0.5-1.5 mm, presenti nei meteoriti condritici e composti in genere di olivina (silicato di Fe e Mg).   Il modello ritenuto più plausibile per la formazione di tali strutture (Levy e Araki, 1989) prevede la presenza di flares nebulari, analoghi alle protuberanze normalmente osservate sul Sole.   Questi eventi altamente energetici avrebbero caratterizzato le zone situate al di fuori del piano mediano della nebulosa con rilascio praticamente istantaneo di enormi quantitativi di energia (circa 1032 erg) immagazzinata nelle linee di campo magnetico sottoposte a distorsione.   La rapidità del fenomeno (i tempi ipotizzati sono dell’ordine di 0.1 sec) e le alte temperature associate sarebbero in grado di spiegare efficacemente sia la formazione dei condruli sia le loro ridotte dimensioni.
Il fatto che i condruli siano così comuni è una prova che in quel periodo la nebulosa solare era caratterizzata da rimescolamenti violenti, riconducibili alla necessità di dissipare considerevoli quantità di energia.

FASE 3
Aggregazione delle polveri in planetesimali per mezzo di collisioni a bassa velocità.
Inizia in questa fase il bruciamento dell'H ed il proto-Sole inizia la fase T-Tauri e FU-Orionis che ha una durata di circa 106 anni.
Ad una distanza di circa 4 U.A. si può situare la snow-line, la linea immaginaria in corrispondenza della quale avviene la condensazione del ghiaccio d’acqua, fenomeno in grado di accrescere la densità locale della nebulosa planetaria incrementando notevolmente il ritmo di accrezione.   Non è ancora certo se il meccanismo della snow-line sia stato attivo solamente per la formazione planetaria nella regione di Giove oppure se vi siano stati altri siti in cui meccanismi analoghi abbiano fatto da catalizzatore della fase di accrezione.   Certo è, invece, che tale meccanismo operante nella regione posta a circa 4 U.A. dal Sole e che porterà alla formazione di Giove ha influenzato pesantemente (e lo vedremo in seguito) l’evoluzione successiva di tutto il Sistema Solare.
Un secondo dato certo è che questi primi stadi della formazione dei pianeti si sono svolti sullo sfondo di una luminosità molto più elevata di quella attuale, quantificata da Hoyle (1979) in circa 150 LSOL.
Tutto il gas presente (H, He ed altri) viene rimosso dalla regione interna (vento T-Tauri) lasciando solamente i planetesimali di una certa massa già formati.   La massa originaria della nebulosa è stimabile (Hoyle, 1979) in almeno 1750 masse terrestri, delle quali circa 1300 costituite da H ed He sono in qualche modo andate perdute.

FASE 4
Nella zona dove il ghiaccio d'acqua diventa stabile, a circa 5 U.A. dal Sole, si colloca l'accrezione di Giove che raccoglie anche parte dei gas espulsi dalla zona interna.   L'accrezione del nucleo del proto-Giove deve essere avvenuta in un tempo di 105-106 anni ed altrettanto tempo è servito per la sua formazione definitiva: l’intero processo, comunque, si deve essere svolto prima che il gas venisse completamente dissipato.   Dunque Giove è un vero e proprio pianeta e non una stella mancata: la sua origine è da ricercarsi in meccanismi di accrezione e non direttamente dal frazionamento della nebulosa originaria.    E’ importante ancora una volta evidenziare che la formazione rapida di Giove è certamente stato l’evento più importante per il Sistema Solare in formazione, un evento in grado di condizionare pesantemente le successive fasi evolutive.
E' riconducibile a questa fase anche la formazione dei nuclei di Saturno, Urano e Nettuno, la cui formazione, però, avviene molto più lentamente.
Saturno impiega un tempo due volte più lungo di Giove: a differenza di Giove, inoltre, ha un asse di rotazione inclinato rispetto al piano dell'orbita, chiara indicazione che si deve essere condensato da più di un corpo di grandezza considerevole.
Urano completa l'accrezione in circa 107 anni e Nettuno nel doppio di questo tempo; la formazione di questi due pianeti deve certamente essere avvenuta quando ormai buona parte di H ed He erano sfuggiti dal Sistema Solare.
La formazione di Urano e Nettuno assomiglia a quella dei pianeti di tipo terrestre, dunque è profondamente differente da quella di Giove e Saturno, formatisi in presenza di un grande quantitativo di H ed He.
Fernandez e Ip (1983) collocano in questa fase l’origine di planetesimali che, immessi in orbite molto eccentriche dall’azione dei nuclei iniziali di Nettuno e Urano, avrebbero poi costituito sia la Nube di Oort sia una fascia cometaria trans-nettuniana (seguendo in ciò le teorie avanzate negli anni ‘50 da Edgeworth e Kuiper).
L’analisi numerica dei processi di accrezione dei planetesimali associati alla formazione di Urano e Nettuno porta Fernandez e Ip a concludere che:
1. Il principale responsabile dell’immissione di oggetti nel serbatoio cometario è con molta probabilità Nettuno, in quanto l’influenza di Urano è largamente inibita dall’azione gravitazionale di Giove e Saturno. Questi ultimi, inoltre, sono caratterizzati da scarsa efficienza nel lanciare corpi nella regione di Oort, mentre sono più efficienti nell’immissione di "cometesimali" in orbite iperboliche.
2. Un significativo numero di corpi (per una massa complessiva dell’ordine di alcune MTER) potrebbe essere stato immesso in questa fase nella regione dei pianeti interni.
Le comete così come le osserviamo sono pertanto una caratteristica di un sistema planetario già formato, chiaro indizio che già si sono verificati due fatti significativi, vale a dire la condensazione dei ghiacci all’interno della nebulosa e la presenza di corpi in grado di lanciare questi oggetti su vaste orbite intorno alla stella centrale.
A proposito ancora della formazione di Giove è significativo riportare un recente studio di F. Marzari e S. J. Weidenschilling (Marzari, 1997) che intende spiegare l’evidenza osservativa di pianeti di massa elevata posti a piccola distanza dalla rispettiva stella, situazione difficilmente comprensibile ricorrendo allo scenario delle snow-lines non solo per le temperature elevate (circa 1000 °K ad 1 U.A.), ma anche per la carenza di materiale a disposizione (si tenga conto, a questo proposito, che i cosiddetti giganti gassosi sono costituiti per l’80-90% da H ed He).
Nella tabella seguente sono riportate le scoperte di pianeti extrasolari le cui strutture e composizioni chimiche dovrebbero essere molto simili a quelle di Giove e Saturno, sono associati a stelle di tipo spettrale molto simile al nostro Sole ma hanno un’orbita molto vicina alla loro stella:

Nome
Stella
Tipo
spettrale
Massa pianeta (M gioviane) Semiasse orbita (U.A.)
47 Uma G0 2.4 2.1
16 Cyg B   1.7 1.8
Lalande 21185 nana rossa 1 2.3
51 Peg G2 0.47 0.2
55 r Cnc G8 0.84 0.3
t Boo F7 3.8 0.2
u And   0.68 0.2
70 Vir G5 6.6 0.5
HD 114762   10 (*) 0.5

(*) E’ una possibile nana bruna.

L’ipotesi avanzata è che tali pianeti si siano formati nelle regioni più esterne delle nebulose di origine e siano poi stati dirottati in orbite più interne da meccanismi dinamici estremamente efficienti riconducibili alle interazioni tra più oggetti massicci.    Ipotizzando la formazione contemporanea di più planetesimali giganti collocati a distanze reciproche di 2-3 U.A. si avrebbe come immediata conseguenza lo scatenarsi nel sistema di forti perturbazioni gravitazionali, operanti su tempi dell’ordine del milione di anni, che renderebbero veramente caotica l’evoluzione orbitale rendendo possibile sia la collocazione di pianeti giganti in orbite prossime alla stella centrale sia fenomeni di espulsione su orbite iperboliche.
Un aspetto da non sottovalutare è che una evoluzione dinamica di questo tipo porterebbe con se quale inevitabile conseguenza uno "svuotamento" del sistema planetario in formazione con l’inibizione alla formazione di pianeti dotati di massa terrestre.

FASE 5
Formazione dei pianeti di tipo terrestre (Mercurio, Venere, Terra e Marte) in tempi di 107-108 anni.
E' ragionevole ipotizzare, tra questi, la situazione "disagiata" di Mercurio e Marte: il primo risente della vicinanza del Sole ed il suo accrescimento si sviluppa in una zona molto povera di materiale; il secondo risente dell'azione di svuotamento esercitata da Giove nella zona della Fascia Principale degli asteroidi.
Tale azione di svuotamento era duplice: da un lato l'acquisizione e l'inglobamento di planetesimali qui sviluppatisi, dall'altro lato la loro espulsione dalla suddetta zona.

FASE 6
Formazione dei sistemi satellitari e dei sistemi di anelli attraverso meccanismi secondari di accrezione, cattura di planetesimali già formati ed episodi collisionali.
Talvolta, in una concezione quasi frattale del nostro Sistema Solare cara anche allo stesso Galileo, si può essere indotti a considerare i sistemi satellitari come dei sistemi solari in miniatura, quasi una sorta di inevitabile conseguenza dei meccanismi evolutivi di un pianeta.   E’ certamente vero che la formazione dei satelliti può essere considerata quasi un sottoprodotto della genesi planetaria, ma è altrettanto vero ed evidente che le possibili varianti alla formazione satellitare sono davvero molteplici, paradossalmente una per ogni satellite.
Si colloca in questa fase anche la formazione della Luna riconducibile ad un impatto con un planetesimo di dimensioni paragonabili a quelle di Marte, evento databile 4.4 miliardi di anni fa.
Episodi analoghi hanno coinvolto anche altri pianeti: a seguito di un impatto Venere potrebbe aver invertito il senso di rotazione e, sempre per un impatto violento, Mercurio potrebbe essere stato privato del mantello di silicati.   Le collisioni hanno inoltre caratterizzato e continuano a caratterizzare l'evoluzione dei corpi della fascia asteroidale.
A 108 anni dalla separazione iniziale della nebulosa, il Sistema Solare aveva completato il suo processo formativo ed iniziava per i corpi che si erano formati la lenta modificazione superficiale ad opera sia degli episodi impattivi anche estremamente violenti, sia di cause endogene.
Si innescava anche quel processo di formazione-distruzione delle atmosfere planetarie; quelle attuali, infatti, non sono le atmosfere originarie (almeno nei pianeti di tipo terrestre) ed è molto probabile che drastiche variazioni della composizione atmosferica siano stati episodi frequenti nell’evoluzione planetaria, proprio quali conseguenze di eventi impattivi giganti.   Il periodo di queste drastiche modificazioni atmosferiche va collocato circa 3.8 miliardi di anni fa, in coincidenza con il momento di maggiore bombardamento; in seguito le atmosfere dei pianeti terrestri sono state sufficientemente stabili e non hanno più risentito di massicci fenomeni di rimozione, ma hanno, ciascuna per conto suo, seguito percorsi evolutivi indipendenti risultando in tal modo uniche.   Per quanto riguarda la Terra, un aspetto correlato alla costruzione dell’attuale atmosfera è quello dell’identificazione dell’origine dell’acqua presente sulla superficie del nostro pianeta; e su questo aspetto le comete avrebbero potuto giocare un ruolo decisivo (Chyba, 1987 e 1990).


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